16 luglio 2025

Mandello, l’addio al “Barissa”. Di sé disse: “Sono un sanguigno, estremo in tutto quello che faccio”

Nel 2012 Enrico Bertarini raccontava a Bianca Panizza: “Non potevo essere un bravo scolaro, primo perché tornato da scuola dovevo lavorare, poi perché lo studio era il mio ultimo pensiero”

Enrico Bertarini, il "Barissa" (1927-2025).

(C.Bott.) “Eravamo in sei fratelli. Marta era la maggiore e ha trovato presto lavoro alla Carcano, due femmine sono andate a servizio a Milano, mio fratello, malato a un braccio, ha trovato lavoro in una portineria, la più giovane - del ’34 - ancora in casa e io quando avevo 10 anni sono andato come famei, cioè come aiutante, presso la famiglia Arrigoni di Maggiana... Le prime tre classi delle elementari erano a Crebbio, la quarta e la quinta invece a Mandello basso, in via XXIV Maggio, e per noi era normale andare e venire anche più volte nella stessa giornata con gli zoccoli in mano per non consumarli, lungo la mulattiera perché ancora non c’era lo stradone. Non potevo essere un bravo scolaro, primo perché tornato da scuola dovevo lavorare, poi perché lo studio era il mio ultimo pensiero…”.

Enrico Bertarini, il “Barissa”, del quale questa mattina alle 10.30 verranno celebrate le esequie nella chiesa di Sant’Abbondio a Somana di Mandello, si raccontava così nella testimonianza raccolta da Bianca Panizza e pubblicata a fine 2012 nel libro “Storie del tempo che fu” .

“Quando ho iniziato la quarta ci hanno fatto una prova di cultura generale - raccontava il “Barissa” - Alla domanda “cos’è il clima?” mi sono impantanato. Ero sempre dietro la lavagna perché non stavo mai zitto e fermo e facevo ridere gli altri… Ho fatto anche il chierichetto. Ero tremendo e il parroco, don Paolo Bertarelli, per tenermi buono mi aveva nominato capo del gruppo. La domenica mi dava 50 centesimi che dovevo dividere con altri quattro. Compito mio era riordinare l’altare dopo la messa e mi premuravo di scolarmi il vino avanzato anche se non mi piaceva, perché era secco e sapeva di aceto”.

Quindi i ricordi delle sue estati a Maggiana e il suo andare di corsa fino ai Piani Resinelli: “Lì andavamo a curare gli scalatori che rocciavano - spiegava Bertarini, classe 1927 - poi li imitavamo arrampicandoci senza corde e con le scarpe rotte fin dove potevamo. Nell’ottobre del ’42 sono stato assunto in Guzzi e finalmente ho potuto permettermi un gelato, un panino. E’ entrato qualcosa in casa, mentre prima non avevamo niente, neanche le galline perché ce le avevano rubate”.

“Più tardi - aggiungeva - ho addirittura comprato un “guzzino”. Lo usavo solo di sabato e domenica, giusto per darmi delle arie, perché la benzina costava… In Guzzi mi hanno affiancato a un operaio esperto per imparare il mestiere di saldatore elettrico. Mi piaceva e di me dicevano che ero bravo”.

Poi la sua passione per la marcia alpina (“Eravamo una pattuglia di tre concorrenti e abbiamo gareggiato in Piemonte, in Liguria, in Veneto, oltre che in Lombardia. A un campionato italiano siamo arrivati secondi”) e altri aneddoti della sua esperienza alla Moto Guzzi: “Nel 1967, quando hanno licenziato 70 persone, nel mio reparto soltanto io sono stato buttato fuori. Tra gli altri licenziati c’erano socialisti, comunisti, quelli che a vario titolo davano fastidio indipendentemente dalla loro bravura sul lavoro”.

Per qualche tempo al “Tubettificio ligure”, poi come giardiniere e portinaio dal Giuseppe Lafranconi delle marmitte, per dieci anni fino all’età della pensione.

“Il meglio di me - raccontava sempre il “Barissa” - l’ho dato nel percorrere in lungo e in largo la montagna, le nostre Grigne e le Alpi. Dopo le 8 ore di lavoro in Guzzi salivo al rifugio Brioschi e l’indomani mattina ero puntuale al lavoro… Nel ’52 sono salito fino alla cima della Grigna settentrionale 45 volte in un anno, sempre per diletto. Sono stato nel Soccorso alpino per 17 anni, ho fatto lo “sherpa” per l’alpinista Giorgio Redaelli quando ha scalato in prima invernale la parete nord-ovest del Civetta. Ho partecipato alla Marcialonga, al campionato italiano di marcia di regolarità in montagna. Non era difficile per me fare il giro dei nostri rifugi in 12 ore: Bietti, Bogani, Brioschi, Pialeral, Resinelli, rifugio Porta, Rosalba, Elisa e ritorno alla baita “del Barissa”, all’Alpe Cetra sopra Era. Ma l’impresa di cui vado più fiero è proprio la costruzione di quella baita… L’ho costruita con l’aiuto di alcuni amici il sabato e la domenica mettendoci alcuni anni. Era il mio regno”.

Infine un riferimento al suo carattere: “Io sono un sanguigno, testardo, estremo in tutto quello che faccio, non cedo facilmente. Tutti difetti, secondo la maggioranza delle persone, ma ho anche tanti estimatori, gli “originali” come me, molti amici veri e, non ultima, la compagna della mia vita, la Teresina Mangili che mi sopporta dal 1975 e che ha capito che sotto la rude scorza batte un cuore 'toro'”.

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