20 dicembre 2022

“Il presepe a scuola va fatto anche per includere i bambini di altra fede o di altre culture”

Adriana Lafranconi, mandellese: “C’è un senso comune sulla negazione del significato autentico del Natale, o almeno sul suo appiattimento, che già è andato oltre, in maniera pericolosa perché subdola”. “Determinate scelte rendono più deboli tutti: cristiani, uomini e donne di altre fedi religiose, atei” 
 
  
Ogni anno, con l’approssimarsi del Natale, torna d’attualità il dibattito sull’opportunità o meno di allestire i presepi nelle scuole. In questo 2022, peraltro, considerazioni e valutazioni sull’argomento sembrano essere in tono minore rispetto al passato. Pura casualità, oppure sono altre le ragioni? A rispondere è Adriana Lafranconi, mandellese, ex insegnante, cultrice di pedagogia e collaboratrice presso l’Università degli studi di Bergamo.
“La cronaca sia locale sia nazionale - afferma - quest’anno non ci ha in effetti presentato situazioni conflittuali su questo tema, che in un recente passato aveva visto l’espressione di punti di vista solitamente contrapposti. Personalmente ho letto soltanto del caso di una scuola del Molise dove si è scelto di non realizzare il presepe per non offendere la sensibilità degli alunni di altre fedi religiose, per non farli sentire esclusi”.
Una motivazione ricorrente, negli anni scorsi, in altri analoghi contesti...
“Sì, e solitamente contestata con altrettanti ricorrenti richiami all’importanza dei simboli culturali, identitari, di appartenenza, espressione delle radici cristiane dell’Italia e dell’Europa. Li abbiamo ascoltati e letti molte volte, sentendoci anche disturbati quando a sottolinearli erano persone che, per altre problematiche sociali o nella propria vita, della cristianità non hanno proprio fatto il vessillo. Credo invece che si possa cantare fuori da questo coro, per sostenere che il presepe nelle scuole vada fatto anche per includere i bambini e le bambine di altra fede o di altre culture”.
Il presepe non come motivo di esclusione ma addirittura come fattore di inclusione, dunque?
“Certamente sì. Ciascuno di noi quando esce dal proprio ambiente si trova a fare i conti con novità, dal piano della quotidianità a quello di tematiche fondamentali, che ha necessità di capire per comprendere la nuova realtà che si sta vivendo. E per padroneggiarla. Che si tratti di un dolce, di un attrezzo da cucina, del costume principesco per la festa della circoncisione che campeggia nelle vetrine di Paesi musulmani e che io ho corso il rischio, per ignoranza, di scambiare per un costume di Carnevale, o della Kippah di carta che ai turisti non ebrei viene chiesto di indossare all’ingresso della sinagoga a Venezia, tutto va conosciuto per sentirsi inseriti nel contesto. E allora mi piace pensare a un giovane induista, o musulmano, o shintoista oppure di famiglia atea che, in visita agli Uffizi di Firenze, di fronte all’Adorazione dei Magi di Leonardo ringrazi in cuor suo gli insegnanti della scuola primaria che, proprio grazie a un presepe, hanno favorito in lui, a distanza di anni, la possibilità di cominciare autonomamente a comprendere questo capolavoro. Questa è inclusione”.
Però è soltanto dello scorso anno il tentativo della Commissione europea per l’uguaglianza che, proprio con la motivazione di una lingua inclusiva, aveva raccomandato, tra l’altro, di non usare la parola “Natale”…
“Pochi giorni fa quando, salutando i miei nipoti che vivono a Bruxelles, ho detto loro: “Divertitevi, nelle vacanze di Natale”. Mi sono sentita rispondere dal più piccolo: “Nonna, sono le vacanze d’inverno”. Eppure frequentano una scuola cattolica, dove certo nell’atrio c’è un presepe, ma che solitamente mette ben in evidenza soprattutto l’iniziativa del mercatino di Natale. Né consola il fatto che ciò sia in sintonia con la scelta di altre scuole cattoliche d’Europa, dove le pur apprezzabili iniziative religiose sono nascoste da quelle, ben più pubblicizzate, della festa laica. Perché è così, anche con l’omissione nasce e si diffonde il vuoto simbolico. Dunque, se quello della Commissione sulla lingua inclusiva è stato un tentativo subito abortito, c’è un senso comune sulla negazione del significato autentico del Natale, o almeno sul suo appiattimento, che già è andato oltre, in maniera pericolosa perché subdola”.
Ma a quale livello è diffusa, a suo giudizio, questa concezione?
“Non so dirlo. Per fare qualche esempio, su questo blog ho letto con piacere l’invito dei bambini e delle bambine della scuola dell’infanzia di Crebbio a partecipare all’incontro con la Natività, e quello della scuola dell’infanzia di Lierna, dove i piccoli sono stati accompagnati a reinterpretare i dipinti di Giotto sul Natale. La scuola primaria “Sandro Pertini” di Mandello, poi, inserendo il presepe nella storia trentennale dei progetti di solidarietà ha mandato il messaggio che molti valori accomunano cristiani e non cristiani, con i primi che trovano nella Parola le motivazioni al proprio agito di misericordia. Ma in rete leggo anche che nella scuola primaria “Paini” di Sondrio attorno a una rappresentazione stilizzata della Natività sono state disposte una varietà di case, della realtà o di fantasia, con le porte aperte destinate ad accogliere ogni bambino e a garantirgli il diritto all’istruzione, perché - cito dal sito web dell’istituto - “accogliere vuol dire accettare una “promessa”, che irrompe all’improvviso, a tempo e fuori tempo. Accogliere senza riserve o condizionamenti significa scoprire che ognuno di noi è un essere unico e irripetibile e questa diversità è la vera possibilità di confronto e di crescita (…) in un’ottica propositiva di integrazione e di inclusione di tutti gli alunni (…) per la maturazione di una sensibilità capace di uscire dalla sfera individuale, per riconoscersi e aprirsi in modo consapevole ai bisogni dell’altro”. Tutte affermazioni sacrosante, ma attente a espungere ogni parola che faccia esplicito riferimento al Natale. Non so quanta sia la consapevolezza che scelte di questo tipo rendono più deboli tutti: cristiani, uomini e donne di altre fedi religiose, atei”.

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