Così don Marco Nogara oggi pomeriggio a Mandello Lario alle esequie della leggenda del canottaggio morto all’età di 97 anni
(C.Bott.) Un corteo silenzioso dalla sala consiliare di piazza Leonardo da Vinci fino al “Sacro Cuore”, passando per via Manzoni, piazza della Repubblica, via Risorgimento, via Cesare Battisti e via Nazario Sauro. La bara portata a spalla, a turno, da atleti, ex atleti e amici del grande canottiere morto all’età di 97 anni. Nel giorno dell’ultimo saluto a Giuseppe Moioli Mandello Lario si è fermata e ha rivolto al grande campione un ideale deferente inchino.
Nella chiesa parrocchiale, poi, preghiere, canti e l’omelìa di don Marco Nogara, “figlio della terra mandellese” come lui stesso si è definito. “Il saluto cristiano a una persona cara - ha premesso il sacerdote - intreccia una dimensione personale, unica e propria a ciascuno di noi, e una pubblica. La morte, così come il nascere, è un fatto che segna una comunità e l’affrontarla insieme, in un contesto di preghiera, la sottrae a derive individualistiche che imprigionano l’uomo in una solitudine incomprensibile”.
Il grazie al Signore “per il dono di un allenatore, di un maestro e guida per intere generazioni, di un cittadino illustre e di un campione plurititolato ma soprattutto di un amico e di un fratello, di un uomo semplice e concreto che ha interpretato nel tempo, con la propria umanità e fantasia, ciò che Dio da sempre è nell’eternità”, poi una riflessione: “I grandi uomini ispirano e lasciano un segno. La loro vita non è sottratta allo sguardo di chi li ammira. Immagino lo abbiano sperimentato tutti coloro che hanno vinto qualche competizione importante: al rientro nel proprio paese si avverte la simpatia e lo sguardo di molti, anche di coloro di cui magari non conosceremo mai il nome. Questo segno impresso nella comunità è tanto più profondo quanto più è autentica la testimonianza offerta e quanto più è vero ciò che viene veicolato”.
Quindi, in riferimento alla vocazione di Moioli per il canottaggio, la sottolineatura che “per noi cristiani la vocazione è un concetto inscindibile dal dono totale di sé, che attraversa la condizione della gloria, del momento del successo, come quella della ferialità e porta sempre a una pienezza e a una comunione, mai a un ripiegamento egoistico su di sé”.
“L’atleta sa bene - ha aggiunto don Marco - che soltanto a prezzo di faticosi allenamenti si ottengono risultati significativi. La perseveranza porta a non arrendersi né di fronte agli insuccessi né quando si presentano degli infortuni. La sapienza dei salmi ci ricorda che la fatica spesa nella semina trova ricompensa nella gioia della mietitura. Ogni vocazione, vissuta con fedeltà e entusiasmo, non è mai inferiore alle altre ma sempre richiede il dono totale di sé e porta alla comunione tra gli uomini e alla pienezza dell’unione con Cristo, ciò che ora si sta compiendo per Moioli”.
Il sacerdote ha in seguito citato papa Francesco e ricordato la preghiera che il pontefice recentemente scomparso rivolse nel 2022 ai soci di un noto Circolo canottieri: “Vi incoraggio a perseverare - ebbe a dire - perché bambini, giovani e adulti possano coltivare l’amore per la verità e la giustizia, il rispetto del Creato, il gusto della bellezza e della bontà, la ricerca della libertà e della pace. A volte il mondo dello sport sembra subire i condizionamenti delle logiche del profitto e dell’agonismo esasperato, che può degenerare anche in episodi di violenza. E’ compito anche di realtà come la vostra testimoniare la forza morale dell’attività sportiva che, se vissuta rettamente, aiuta a stabilire buone amicizie e favorisce la costruzione di un mondo più sereno e fraterno, nel quale ci si sostiene e ci si aiuta a vicenda”.
Più avanti nella sua omelìa il grazie a Moioli “per aver messo in luce il valore della vita come una regata verso una meta non soltanto terrena e passeggera ma eterna, una corsa in cui non uno soltanto ma tutti possono essere vincitori”. “Riconosciamo che corpo, intelligenza e volontà e tutte le umane capacità sono doni del Creatore - ha osservato - Con la grazia di Dio, mettiamoli a servizio della comune edificazione della civiltà dell’amore, segno profetico e lievito in un mondo che sembra preferire logiche di violenza e divisione”.
In conclusione una preghiera che Giovanni Paolo II volle elevare al Cielo in occasione del grande Giubileo del 2000 celebrando l’eucarestia con atleti di tutto il mondo. “Anche chi, come l’atleta, è nel pieno delle sue forze - ebbe a dire l’allora pontefice - riconosce che senza di te, o Cristo, è interiormente cieco, incapace cioè di conoscere la piena verità, di comprendere il senso profondo della vita, specie di fronte alle tenebre del male e della morte. Anche il più grande campione, davanti alle domande fondamentali dell’esistenza, si scopre indifeso e ha bisogno della tua luce per vincere le sfide impegnative che un essere umano è chiamato ad affrontare. Signore Gesù, aiuta questi atleti - e io aggiungo: questi tuoi amici che pregano per il nostro fratello Giuseppe - a essere tuoi amici e testimoni del tuo amore. Aiutali a porre nell’ascesi personale lo stesso impegno che mettono nello sport e nella vita, aiutali a realizzare un’armonica e coerente unità di corpo e di anima. Possano essere, per quanti li ammirano, validi modelli da imitare”.
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