16 aprile 2020

“Miro” Ferrari, sfidò i suoi limiti fino all’estremo e lottò. Senza compromessi

Quando ritenne che il suo valore era da tutti apprezzato, cercò la sua dimensione alpinistica inseguendo nuove esperienze, consapevole che ognuno, in montagna, dovesse saper trovare la propria dimensione per sentirsi appagato
Casimiro Ferrari, morto il 4 settembre 2001.
(C.Bott.) “La sua passione era la montagna. Sono tanti gli alpinisti che hanno raggiunto cime e scalato pareti in sua compagnia, lui che ha saputo meritare la stima degli amici rimanendo se stesso in ogni situazione. Amava la vita libera, ma non perdeva mai di vista i più grandi valori e i risvolti umani. Un uomo capace di vincere grandi sfide alpinistiche e che ha sfidato i suoi limiti fino all’estremo, verso lo spazio interiore, dove albergano le nostre paure e i nostri desideri, lottando senza compromessi”.
Così il lecchese Renato Frigerio, memoria storica dell’alpinismo lecchese, delinea la figura e la personalità di Casimiro Ferrari, nato il 18 giugno 1940 a Rancio di Lecco, lo stesso rione che diede i natali a Carlo Mauri, il grande “Bigio”.
“La generazione del “Miro” - afferma - è forse l’ultima che conserva come retaggio, ma anche come sudditanza e sottomissione, un orgoglio smisurato, una gran voglia di ben impressionare per non fare brutte figure. Ne derivano una serietà di preparazione e di approccio, un’umiltà nell’apprendere e un desiderio di farsi notare e impressionare favorevolmente che sono un po’ il seme della Lecco alpinistica. Per questo gli dobbiamo grande riconoscenza”.
Fiero delle sue radici lecchesi, conobbe la facilità con cui talune etichette rischiano di comprometterne l’evoluzione e non diede adito a critiche. Evitò le osservazioni, riuscì a imporsi e a godere la fiducia di tutti, Riccardo Cassin e il “Bigio” compresi. Quando ritenne che il suo valore era da tutti apprezzato e condiviso, cercò la sua dimensione alpinistica inseguendo nuove esperienze, consapevole che ognuno, in montagna, dovesse saper trovare la propria dimensione per sentirsi appagato.
“Lavorava per vivere - ricorda sempre Frigerio - ma si sentiva felice soltanto immerso nella natura e sviluppò uno spirito di osservazione straordinario. Si dedicò con sacrificio alla preparazione atletica, in momenti in cui tutto si basava sulla resistenza fisica, sulla conoscenza tecnica delle vie percorse, sull’affiatamento con i compagni di arrampicata”.
A Lecco Ferrari divenne qualcuno e fece parlare di sé. Mauri se ne accorse e lo fece sognare, parlandogli di montagne da conoscere e tenendolo in considerazione e il “Miro” fu fiero di tanta attenzione. Con Mauri non perse tempo in sentimentalismi, si parlavano in dialetto, discutevano delle rispettive famiglie. E fu amicizia. Con Cassin, come lui di carattere un po’ chiuso, esigente con se stesso, erano soliti dialogare dei giorni passati andando a caccia.
Ferrari arrampicava in Grigna anche d’inverno. Ma ai Torrioni Magnaghi, nel febbraio 1961, incappò in un incidente ed ebbe salva la vita atterrando sulla neve.
In maggio lo vediamo salire la “Tissi” alla Torre Venezia e la “Cassin” alla Torre Trieste in Civetta. Anche durante il servizio militare, prestato alla Scuola militare alpina di Aosta nel ‘62, dovette subire una sosta forzata per ragioni di salute ma superò tutto con recuperi prodigiosi, con l’entusiasmo e la gioia di vivere.
In seguito aprì nuove vie sulle Grigne, mentre la sua prima ascensione in Dolomiti - formidabile per quei tempi - avvenne alla Cima Grande di Lavaredo, con la ripetizione, lungo la parete Nord, della direttissima via Brandler-Hasse, salita considerata tra le più complete e impegnative delle grandi classiche appunto nelle Dolomiti.
Le montagne di Lecco, le Alpi e le Dolomiti offrirono molto a Casimiro. Fu Carlo Mauri a chiamarlo per un’avventura extraeuropea, quella che avrebbe segnato il ritorno del “Bigio” alla Terra del Fuoco, nelle Ande patagoniche del Cile. Era il 1966, con obiettivo la conquista del monte Buckland.
Mauri fu ammirevole per forza d’animo e il “Miro” trovò in lui uno tra gli uomini più sensibili che avesse mai conosciuto. E iniziò la sua cavalcata di testimonial dell’alpinismo lecchese.
Nel gennaio del ‘66, al ritorno dal Buckland, ne approfittò per puntare alla normale dell’Aconcagua, in Argentina, e affrontare un test a quasi 7.000 metri per un presunto soffio al cuore riscontrato dai medici ai tempi del servizio militare.
La salita all’Aconcagua fu una prova di resistenza, forza, capacità di soffrire. Una vera scommessa. Il ghiaccio era rotto. Le Ande divennero il nuovo campo d’azione del “Miro”, precisamente l’imponente catena di Huayhuash, in Perù. Nel 1969 fu con Cassin sulla parete ovest del Nevado Jirishanca e nel ‘72 un’altra vittoria. Con gli amici del Cai Gallarate raggiunse la cima del Nevado Huantsan Ovest, nella Cordillera Blanca. Nel ‘75 sulla parete sud-ovest dell’Alpamayo conquista con i Ragni una via di ghiaccio, compiendo un’altra splendida impresa.
Nel 1979, sempre su pareti di ghiaccio con elevate difficoltà, fu la volta della parete sud del Nevado Sarapo a cedere agli attacchi di Casimiro.
Sempre nell’America meridionale fu la Patagonia a contagiare Ferrari. Fu quello l’inizio di una nuova storia. Ed ecco il Cerro Torre, uno dei capolavori del “Miro”, una pietra miliare come espressione di un gruppo omogeneo e unito, i Ragni.
Ma Casimiro aveva appena iniziato le sue assidue frequentazioni in Patagonia. A vent’anni dalla conquista del Cerro Torre si trovava proprio in Patagonia e fu oggetto di manifestazioni di affetto e festeggiamenti calorosi, tanto da rimanerne commosso. “Anche in Argentina il ricordo della conquista del Torre ebbe un significato enorme - ricorda Renato Frigerio - In Patagonia il tempo si è fermato. La velocità non ha nessuna importanza. Il ritmo frenetico del nostro tempo è sconosciuto. La misura del tempo sono l’uomo e la natura. Soltanto il vento è onnipresente. Contano i rapporti umani, la solidarietà, dove le distanze sono infinite e la sopravvivenza esiste”.
Nessuno vuol mettere radici in Patagonia. Eppure Casimiro accarezza quel desiderio. Non gli basta più tornarci una volta all’anno, vuole viverci. Ne è affascinato. Lì vive gente generosa e la solidarietà esiste.
Nel ‘76 ecco un altro exploit sull’imponente Fitz Roy. Ferrari vince il pilastro est, tentato dai francesi nel ’68, da nostri connazionali di Rovereto nel ’72 e da alpinisti monzesi nel ’73, oltre che dagli svizzeri nel ’74, a loro volta arresisi a 200 metri dalla vetta. La spedizione dei Ragni è composta da dieci alpinisti e due di loro raggiungono la vetta: uno di questi è Casimiro.
Nel 1984 vince il pilastro nord-est del Cerro Murallon con un gruppo di sette Ragni, quattro giorni e mezzo di ascensione e un altro per la discesa. Nel 1985 ha ragione del Cerro Norte e due anni dopo cade - dopo sei giorni - il San Lorenzo, con una via integrale diretta che si sviluppa sulla lunga cresta est. Fanno parte della spedizione altri tre lecchesi del gruppo Gamma.
Nel 1988 Ferrari  torna in Patagonia per vincere la grande piramide del Cerro Riso Patron. Nell’89 traccia in invernale una via nuova al San Valentin, la cima più alta della Patagonia. Nel 1992 vince l’Aguja Bifida, nel gruppo del Torre, e nel ‘93 è la volta del Cerro Grande per una via di ghiaccio.
Nel 1994 traccia una direttissima sulla parete est dell’Aguja Mermoz, nel gruppo dei satelliti del Fitz Roy. Al rientro da questa montagna è accolto con festeggiamenti significativi per il ventennale della conquista del Cerro Torre.
Ma un alpinista del calibro di Casimiro Ferrari non può ignorare l’Himalaya con le sue quote proibitive e il fascino delle sue imponenti vette. Così nel 1985 sale l’Ama Dablam e nel 1986 effettua un tentativo allo Shisha Pangma. Nel ‘91 lo vediamo sempre con i Ragni affrontare il problema del momento in Himalaya, la Ovest del Makalu. E Casimiro anche su questo obiettivo dà la carica e trascina. Due giorni da solo al campo più alto prima di desistere. Quota massima raggiunta 7.400 metri.
Ragno dal 1959, fu ammesso nell’Accademico nel ’65 ed entrò nel Groupe haute montagne nel 1968, l’accademia internazionale dell’alpinismo. Ferrari fu insignito del titolo di cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica per meriti sportivi.
Ricoverato all’ospedale di Lecco per una malattia incurabile, il 4 settembre 2001, a soli 61 anni, Casimiro Ferrari si spense. “Ma il suo sapere di montagna, le sue indimenticabili imprese che hanno dato lustro a tutto l’alpinismo lecchese e non solo - conclude Frigerio -  sono un patrimonio che rimane in tutti quelli che l’hanno conosciuto e un valore prezioso per tutti e forse inestimabile per le nuove generazioni”.

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