21 aprile 2020

“Papà, il tuo cervello era una discoteca che si spegneva ma nel tuo corpo c’era ancora musica”

Stefano, uno dei tre figli di Nicola Ruberto, morto il giorno di Pasqua, scrive: “Mio padre era uno di quei “terroni” che ce l’aveva fatta ad aprire un’azienda insieme a sua moglie. E’ riuscito a non farci mancare mai niente”
Nicola Ruberto in una foto dei primi anni Novanta con il piccolo Stefano.
(C.Bott.) Classe 1949, era arrivato sul Lario che era ancora bambino e, ad eccezione dei sei anni - dal 1980 all’86 - trascorsi ad Abbadia Lariana, aveva sempre vissuto a Mandello.
Da giovane aveva intrapreso la professione di idraulico lavorando alle dipendenze di Fabrizio Zucchi. Nel 1970 la decisione di Nicola Ruberto di mettersi in proprio e di avviare una sua termoidraulica e lattoneria. Adelia Mirarchi, sua compagna nella vita di ogni giorno, nell’86 apre “Idea bagno e arredo”, attività in cui Nicola entra qualche anno dopo per occuparsi sempre di termoidraulica e di arredamento per la casa con il negozio gestito al civico 22 di via Oliveti.
Una notte del 2004 un’ischemia cerebrale colpisce Ruberto e per lui iniziano i problemi. E il calvario. Nel 2006 un intervento al cuore lo ferma definitivamente e qualche anno più tardi ecco i primi sintomi della demenza vascolare, conseguenza delle ischemie multiple avute durante l’operazione.
Nel 2008, tuttavia, inaugura il nuovo magazzino in via Parini 2. Con lui ci sono i figli Enrico ed Elena, che entrano a pieno titolo nell’attività professionale cambiando la ragione sociale. Nasce così “Progetto casa”, attivo tuttora.
Nel novembre 2019, sei anni dopo la scomparsa della moglie, Nicola Ruberto - padre di tre figli (oltre ai già citati Enrico ed Elena anche Stefano, nati rispettivamente nel ’78, nell’80 e nel ’90) - entra in una residenza sanitaria assistenziale della provincia lecchese. E quest’anno, il giorno di Pasqua, il decesso.
A ricordare il padre, a nome anche del fratello e della sorella, è ora Stefano con questa sentita e commovente testimonianza:
“Mio padre è morto per Covid-19. E’ morto in una Rsa della provincia di Lecco, quello che doveva essere il posto più sicuro al mondo, preventivamente chiusa ai parenti a fine febbraio per i primi casi scoperti in regione.
Mio padre era affetto da demenza vascolare. Io lo definivo un bambino in un corpo di 70 anni. Il suo cervello era una discoteca a cui pian piano chiudevano alcune sale aspettando di abbassare definitivamente la serranda, ma in quel corpo c’era ancora musica.
Mio padre ha iniziato ad avere problemi verso i 55 anni, dopo una vita passata a lavorare. Era uno di quei “terroni” che era riuscito ad aprire un’azienda insieme a sua moglie, è riuscito a mantenere tre figli e a non far mancare mai niente a nessuno.
Mio padre non lo vedrete nei numeri pubblicati qua e là, perché in tre settimane di febbre alta e problemi respiratori non ha mai fatto un tampone, non è mai stato dichiarato positivo ed è morto solo.
Le uniche notizie le avevamo tramite una dottoressa a casa per il Covid-19 che in caso di variazioni ci chiamava per aggiornarci della situazione in base a quello che le veniva riferito dal reparto.
Nicola Ruberto con Stefano in una fotografia di questi ultimi anni.
All’inizio di tutto questo siamo stati avvisati che in un reparto, non quello di mio padre, era stato accertato un caso di coronavirus perché un ospite caduto a terra, dopo esser stato portato in ospedale, aveva appreso di essere già contagiato. Non era il reparto giusto, “...però sappiate che tutti hanno la febbre alta, ma vostro padre no”.
Dopo questa telefonata c’è stato un silenzio durato otto giorni, interrotto soltanto da una mia chiamata nella quale esigevo aggiornamenti. “Lei deve preoccuparsi soltanto se la chiamo, se non la chiamo va tutto bene”. E infatti è andata proprio così. Il 28 marzo mio papà presentava febbre alta e saturazione stabile a 93.
Il 3 aprile ho visto in videochiamata per l’ultima volta con mia sorella mio padre. Non ci voleva parlare, sembrava offeso perché da oltre un mese non andavamo più a portargli la cioccolata e a passeggiare nel parco, dove avevamo promesso di organizzare una grigliata ad agosto come facevamo una vita fa quando tutto era un problema ma avevo ancora le persone che mi hanno messo al mondo.
Da lì in avanti più nulla, non l’abbiamo più visto. L’ultimo giorno, il 12 aprile, sono stato contattato stranamente di mattina perché mio padre era peggiorato, da due giorni aveva l’ossigeno e - a detta del medico, uno nuovo direttamente dal reparto - gli avrebbero cambiato il farmaco “perché magari fa come altri pazienti che hanno avuto un tracollo e poi si riprende”.
A quel punto avevo chiesto soltanto una cosa, di farmi vedere mio padre e quel nuovo dottore mi aveva promesso di farmi chiamare immediatamente dalla caposala che si occupava delle videochiamate. Passano sei ore, chiamo la struttura per avere notizie e mi viene risposto che la caposala è andata a casa e non ha potuto chiamarmi. Due ore dopo mi chiama il dottore: “Le devo dare una triste notizia, suo padre è appena deceduto”.
In tutta questa storia mi spiace di aver lasciato sola la persona che ha pregato dieci anni della sua vita per avermi, quello che tanti anni fa credevo un supereroe perché era forte e non piangeva mai, quello che ho visto piangere perché in una maledetta notte un’ischemia gli aveva portato via la parola e non sapeva come comunicare. Ti voglio bene, papà!
Stefano

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