08 maggio 2020

Don Marco Malugani ricorda don Renato Lanzetti: “Lui, così vicino ai sofferenti”

Il parroco di Lierna: “Ha riservato massima importanza alla fraternità sacerdotale, sempre con il buon senso del montanaro riscaldato dal sole, rischiarato dalla luna, conquistato dalle cime, incantato dalle stelle”
Don Renato Lanzetti, vicario generale della diocesi di Como, scomparso l'8 aprile scorso.
Nel trigesimo della scomparsa di don Renato Lanzetti, il vicario generale della diocesi di Como morto lo scorso 8 aprile dopo aver contratto il coronavirus, il parroco di Lierna don Marco Malugani, suo compagno di messa, lo ricorda con questa significativa testimonianza:
“La mia testimonianza vuol essere soltanto una goccia di rugiada per mantenere viva la memoria di don Renato, al quale stavano molto a cuore i suoi compagni di ordinazione, avvenuta il 26 giugno 1976 nel Duomo di Como, quando monsignor Teresio Ferraroni ci impose le mani e ci consacrò sacerdoti.
Ricordo un pensiero che il vescovo, interpretando in modo elevato quella solenne celebrazione, rivolse a noi otto sacerdoti novelli: “Questo giorno è bello per il Signore che si sente amato! Voi giovani sacerdoti offrite il vostro cuore e la vostra vita a Dio per il suo Regno, per la sua Chiesa: solo per questo, per nessun altro scopo. Atto grande, offerta preziosa, capace di arrivare così in alto e dar gioia al Cielo, felice occasione di giubilo celeste”.
Don Renato partecipava a questo evento di far contento il Signore con profonda convinzione e con intensa emozione. Devo essere grato a lui perché si è dato da fare per accogliermi nel gruppo: non avevo frequentato il Seminario di Como e il vescovo Ferraroni, con benevolenza, per ordinarmi mi aveva associato alla loro classe.
I primi anni di sacerdozio li ho trascorsi a Roma e don Renato mi scriveva, mi aggiornava per farmi sentire unito al presbiterio diocesano. Quando poi ho iniziato a esercitare il ministero in Diocesi, ero abbastanza svezzato dopo l’esperienza in periferia di Roma. Non mi divorava la timidezza, ma mi sentivo come “un cavolo trapiantato”.
Organizzava puntualmente gli incontri annuali, coinvolgendomi con premura e stimolandomi ad aver cura del mio sacerdozio. Un po’ come Paolo con Timoteo - “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani” (2Tm 1,6) - e come Giovanni alle sette Chiese: “Ho però da rimproverarti di aver abbandonato il tuo primo amore” (Ap 2,4) e Ap 3,1: “Ti si crede vivo e invece sei morto”.
La Provvidenza nell’arco di 44 anni ci ha posti nella stessa Zona pastorale quando lui era coadiutore a Livigno e io in Valfurva. Mensilmente c’era il raduno del clero; collaboravamo soprattutto nelle iniziative giovanili. Allora bastava un po’ di creatività e di entusiasmo per far straripare gli oratori.
Ci aiutavamo per le confessioni di Natale e Pasqua: gli adolescenti arrivavano come un fiume in piena. Noi cenavamo prima insieme e dopo le confessioni, che finivano già tardi, indugiavamo in “perfetta letizia” fino alle ore piccole. Rientravamo nelle canoniche alle 2 o alle 3 di notte, a volte trovavamo tanta neve sulle strade nel lungo percorso. Il mattino ci alzavamo presto per la messa delle 7 e poi a scuola si insegnava nelle medie e mezz’ora alle elementari.
I sacerdoti ordinati dal vescovo Teresio Ferraroni il 26 giugno 1976: don Renato è il terzo da sinistra, don Marco il secondo da destra.
Dopo una parentesi di otto-nove anni, ci siamo rivisti nella numerosa e vivace Zona pastorale di Sondrio che comprendeva 36 parrocchie, per 20 anni. All’inizio eravamo giovani parroci, lui a Lanzada e io a Castione. Don Renato era frizzante, non si sottraeva agli incarichi gravosi.
Entrambi abbiamo avuto il ruolo di vicario foraneo e ci siamo alternati nel compito di organizzare i percorsi di preparazione al matrimonio. Si usava sposarsi, si iscrivevano tante coppie e alcuni gruppi superavano il numero conveniente.
Con don Renato ho sperimentato non un’amicizia nata da una simpatia umana, ma una fraternità sacerdotale, derivata dalla vocazione e dalle destinazioni, vissuta in modo sobrio, non complimentoso e neppur sempre consenziente. Lui mi chiamava Malugani e io Lanzetti.
Ci sentivamo entrambi liberi di dissentire e stuzzicarci a vicenda. Io sono “un crapon della Valsassina”, duro come i sassi, selvaggio come i boschi...Lui era un Malenco (secondo un antico detto, per fare un malenco ci vogliono sette “valtellini”) e “un barr del la Torr”. Ci importava solo che il nostro legame favorisse l’ideale di comunione con il Signore e di servizio alla Chiesa.
Noi preti, tranne “i senza infamia e senza laude”, siamo schedati: dalla gente, dai confratelli, dai superiori, già in Seminario. Lanzetti non era certo un don Abbondio senza coraggio, non si vendeva per un piatto di lenticchie, non era ammalato di popolarità. Evitava la monotonia di un volto sempre tutto sorridente, non perché fosse deluso come Cleopa ma perché, soprattutto quando celebrava l’Eucaristia, lasciava trasparire la vicinanza ai sofferenti di cui sono intrise l’umanità e ogni comunità.
Si appassionava fino ad arrabbiarsi se era il caso, senza diventare violento e vendicativo. Nel suo carattere custodiva una ricchezza di emotività che tracimava in compassione, commozione e incondizionata dedizione. Era forte, duro, tenace, ancorato saldamente alle sue convinzioni, ma non cattivo e presuntuoso. Sapeva ascoltare, lo vedo ancora con la sua penna in mano quando qualcuno relazionava noiosamente. Resisteva, mentre molti di noi “pisoccavano” o divagavano.
Non aveva mandato in esilio la coscienza, come molti cristiani oggi, era consapevole dei suoi difetti e non si sentiva migliore degli altri. La docilità allo spirito di fortezza gli procurava amarezze. Un giorno mi disse: “Se le richiami, alcune mamme, quando ti incontrano poi non ti salutano più”. Non voleva rinunciare a essere, nel nome del Signore, un prete scomodo.
Apprezzava la varietà nel presbiterio, segno dello Spirito, che oltre alla fortezza, virtù cardinale, elargisce gli altri sei doni perché le diversità non vengono assolutizzate o poste in competizione ma integrate e armonizzate, nel rispetto dell’unico centro di unità che è Gesù Cristo.
Don Renato era allegro, senza eccessi, sapeva far divertire ragazzi e giovani, educandoli con la fermezza di una guida alpina. Li incoraggiava rassicurandoli che la grazia e la misericordia del Signore ci sostengono nella formazione di una coscienza retta e di una volontà granitica; è solo il diavolo che promette gioia a basso prezzo.
Qualcuno ha scritto che la missione del parroco è l’espressione più bella del sacerdozio. Non certo perché è la più comoda. E’ la più completa e la più vicina alla natura umana in tutte le sue stagioni. E’ gratificante e pungente, promettente e deludente. Non mancano le possibilità ma neppure i rischi, in un attimo si può passare  dalla gioia più intensa al dolore più straziante. Infrange i sogni mondani sugli scogli della quotidianità.
Don Renato Lanzetti.
Don Renato prima di diventare vicario generale è stato destinato a tre parrocchie tutte “bigotte”, in senso positivo, cioè di una fede con radici profonde. Ha svolto il suo ministero con grande diligenza e puntigliosità sia nei 13 anni da coadiutore sia nei 28 da parroco, lasciando un segno. Ha lavorato senza interruzione, nella direzione della qualità, disturbato solo per breve tempo da problemi di salute.
Ha saputo valorizzare ciò che di buono ha trovato, comprendendo l’urgenza del rinnovamento e dell’aggiornamento dei vari settori della parrocchia, scegliendo con acuto discernimento i collaboratori laici.
Ha riservato massima importanza alla fraternità sacerdotale, al dialogo con i confratelli e alla condivisione delle iniziative per mantenere vivo e operante il Vicariato, perché la pigrizia e la negligenza del clero non mortificassero le proposte diocesane: sempre e tutto con il buon senso del montanaro, riscaldato dal sole, rischiarato dalla luna, conquistato dalle cime, incantato dalle stelle.
Vorrei tornare ancora un istante alla sorgente del sacerdozio di don Renato, l’ordinazione, e riascoltare un altro passaggio dell’omelia del vescovo: “Il Signore stesso poi, con il sacramento dell’Ordine e con la prima celebrazione eucaristica fa sentire nell’animo a voi sacerdoti novelli che vi ama, vi fa suoi ministri per sempre. Sono esplicite e dirette le parole di Gesù per gli apostoli e per voi: Come il Padre ha mandato me, così anch'io mando voi... Andate, annunciate il mio Vangelo... Chi ascolta voi, ascolta me...Fate questo in memoria di me....Quello che perdonerete su questa terra, sarà perdonato in cielo...Padre santo, custodisci nel tuo nome quelli che mi hai dato, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. La gioia di rendere presente Gesù in mezzo a noi, la gioia di essere ponte che unisce cielo e terra. Citando Manzoni, il Signore non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per procurarne loro una più grande”.
Queste parole del vescovo valgono molto più delle mie e sono essenziali e decisive per una memoria significativa di un sacerdote.
Il Giovedì santo del 2017 in Duomo, alla nomina ufficiale del nuovo vicario generale don Renato, c’è stato un vespaio di commenti e un fragoroso applauso. Dopo la celebrazione, un po’ confuso sono andato in sacrestia a salutarlo. Passando davanti al vescovo ho dovuto dirgli qualcosa: “Grazie eccellenza, ha fatto un bel tiro, scegliendo un nostro compagno di messa!”.
Poi mi è venuto spontaneo, senza proferire parola, dare una carezza a don Renato, che mi ha ringraziato. Non so se il mio viso era velato di commozione o di compassione, non certo di invidia. Sulle sue spalle aveva una croce molto pesante: nella scelta del vescovo, per fede aveva accettato la volontà del Signore; mettendosi al servizio della Diocesi con sacrificio, testimoniava il suo amore sincero per la Chiesa.
Ci siamo poi ritrovati un giorno in un clima più rilassato con il nostro solito stile scherzoso. Lui ha cominciato a dirmi, ironicamente, che cercava un prete da piazzare in Curia. Io gli ho chiesto quante migliaia di firme avesse già fatto e gli ho ricordato, ridendo, che anche se era diventato mio capo, aveva un vecchio debito con me. Nel 1983 era riuscito a schivare la destinazione, come seconda esperienza di coadiutore, in una parrocchia periferica di Sondrio, non per disobbedienza ma per malattia del suo prevosto, e quella destinazione era ricaduta su di me. Invece non ha voluto schivare “la grossa tegola” che gli è piombata sulla testa; gli tocca fare ora la seconda esperienza di coadiutore, non con un parroco ma con il vescovo.
Faceva fatica a staccarsi dalla sua Valle, ma soprattutto credo dalla vita parrocchiale. Don Renato non era certo un ingenuo; nelle difficoltà trovava sostegno in una spiritualità solida; non c’era bisogno di insegnargli i sentieri per alleggerire il peso e unire “l’utile al dilettevole”.
L’avevo invitato a Lierna il 3 maggio per la Cresima. Sarebbe venuto volentieri e l’avremmo festeggiato con tanta allegria e simpatia e con un lauto pranzo. Tutto è naufragato per la sua morte improvvisa. Non gli mancheranno le sante messe di suffragio. Lui, dall’altra sponda, mi aiuterà a vivere con vigore il ministero.
La bella frase di San Filippo Neri può essere la sintesi del sacerdozio di don Renato e le cinque parole il testamento spirituale che regala a noi: “In veritate liberi, in caritate servi, in utraque laeti”.
don Marco Malugani

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